Monte Guglielmo

Il monte Guglielmo, o dialettalmente Gölem, appartiene ad una dorsale allungata situata tra il lago d’Iseo e la media Val Trompia, di cui il Castel Bertino è la cima più alta (1948 m), ma lungo la quale si allineano parecchie altre cime: la Punta Caravina (1847 m), il Dosso Pedalta (1957 m), il monte Stalletti (1686 m). Il monte si trova nel punto nodale di incontro tra questa dorsale e lo spartiacque che con direzione perpendicolare separa il bacino della Val Trompia da quello della Val Camonica.

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Descrizione

La montagna di tutti i bresciani

Il Guglielmo, dialettalmente Gölem è una montagna speciale per molti versi e di ciò si ha sicura sensazione non solo guardandolo da sotto ma anche, e soprattutto, rimontandone la gigantesca e docile groppa. Il fascino non è facilmente definibile, ma indubbiamente attribuibile alla casuale alchimia di più fattori, tutti discendenti a cascata dalla posizione privilegiata e felicemente anomala: un pezzo di Alpi che una mano gigantesca ha sbalzato lontano dal consorzio dei suoi simili, poggiandolo quasi al limitare della pianura ed a balcone sullo specchio del Sebino. Va da sé che le visioni lontanissime che si godono dalla vetta siano di grande effetto, ma questo non costituisce di certo una prerogativa del Guglielmo; la sua singolarità è piuttosto nel modo in cui il monte si colloca rispetto all’ambiente circostante e come ciò viene percepito anche in condizioni di visibilità non ottimali. Infatti per questo blocco compatto e coerente di roccia calcarea la quota sul livello del mare è quasi coincidente con l’emergenza della vetta dal suo basamento: sono 1700 metri di dislivello diretto, su 1950 di quota assoluta, insomma, radicato com’è su due fondivalle bassissimi, e inserito a mo’ di colossale escrescenza sul filo esile ed arrotondato di uno spartiacque erboso più basso di mezzo chilometro a nord e di quasi uno (mediamente, e con l’eccezione della Punta Almana) verso sud,prima del progressivo degrado verso la piattezza della pianura. È un gigante isolato e la più vicina elevazione col suo ordine di grandezza è il Muffetto , a oltre dieci chilometri verso nord, pilastro terminale della dentata ed alta catena proveniente dal “nodo” del Setteventi (le montagne hanno nomi di bellezza incredibile) nella zona del Maniva. Tranne il Muffetto dunque, insieme ai suoi compagni più lontani dell’alta Val Trompia, per i quasi 360 gradi restanti, l’occhio del felice arrampicatore spazia su un vuoto di verdi ondulazioni, valli, pianure, cui si aggiunge lo specchio lacustre del Sebino, e per decine di chilometri non trova degni ostacoli di simile o superiore altezza. Singolare questa sommità del Guglielmo, con la lunga groppa formata da mammelloni erbosi, in catena, costellati di ruvidi e bianchissimi affioramenti di rocce calcaree, e lo sfondo di Castel Bertino a reggere, stagliato contro il cielo, l’imponente e aguzzo Redentore che alla luce del sole riflette un colore molto triumplino quasi di acciaio brunito, impresso per sempre nel suo calcestruzzo liscio e compatto, come per conferirgli un aspetto di rassicurante solidità. La groppa sommitale è difesa da un ripido, lungo e quasi uniforme pendio (ratù è il nome appropriato appioppatogli dai triumplini) sul versante settentrionale, mentre i restanti versanti sono molto più mossi ed articolati, ma mediamente più dolci. Che li unifica tutti è però la caratteristica della nudità, per centinaia di metri di dislivello, corretta solo da radi cespugli ed arbusti, mentre la vegetazione di alto fusto se ne sta sotto quota 1500 a tutto vantaggio della libertà di visuale; e ciò, unito agli effetti del già detto privilegio geografico del Guglielmo, da in premio al paziente arrampicatore tutta la strana sensazione della conquista di una ideale ed eccelsa montagna… poco più in là della porta di casa.


Le forme e le rocce della grande dorsale tra Valle Trompia e Sebino

Da lontano il Guglielmo appare come una montagna isolata, dalla forma ben definita, un’immagine nota e consueta alla maggior parte dei bresciani. In realtà il monte appartiene ad una dorsale allungata situata tra il lago d’Iseo e la media Val Trompia, di cui il Castel Bertino è la cima più alta (1948 m), ma lungo la quale si allineano parecchie altre cime: la Punta Caravina (1847 m), il Dosso Pedalta (1957 m), il monte Stalletti (1686 m). La morfologia è ulteriormente complicata dal fatto che il Guglielmo si trova nel punto nodale di incontro tra questa dorsale e lo spartiacque che con direzione perpendicolare separa il bacino della Val Trompia da quello della Val Camonica. Questa seconda linea di displuvio corre dal colle di S. Zeno alla colma di Vivazzo, per continuare verso la Testata e proseguire infine in direzione sud con la Croce di Marone e la Forcella di Sale verso Punta Almana. Il reticolo idrografico è quindi tributari oi n parte del fiume Mella ed in parte del lago d’Iseo. I torrenti non sono abbondanti d’acqua perché l’innevamento è scarso e diffuso è il carsismo. Verso il fiume Mella scendono la valle delle Selle e la valle di Pezzoro nel torrente Morina, il Filastro, la Valle Scura e la Valle d’Inzino. Sull’altro versante, quello zonese, la Valle di Gasso, l’Ombrino e il Vandùl confluiscono nella Valle del torrente Bagnadore, che confluisce nel Sebino a Marone, dove poco più a sud, si immette anche la Valle dell’Opol. La composizione e la storia geologica sono, come sempre, all’origine della morfologia della montagna. Ad esempio la forma asimmetrica della cima, da Castel Bertino al roccolo della Caravina, è dovuta all’andamento degli strati rocciosi che immergono dolcemente verso sud-ovest, parallelamente al declivio, mentre sul versante opposto, dove affiorano le testate degli strati, il pendio è assai ripido. La caratteristica principale del Guglielmo sta forse nel contrasto tra le forme aspre della dolomia e quelle dolci e arrotondate prodotte dalle formazioni rocciose più tenere e facilmente erodibili, contrasto che è spesso osservabile nel paesaggio di entrambi i versanti, come ad esempio nella conca di Zone, tra le due catene dolomitiche della Corna Trentapassi e di Tisdèl-Fallèra e le rocce tenere e friabili costituite da arenarie, siltiti e calcari marnosi che si incontrano salendo alla Croce di Zone. Così le depressioni che corrispondono ai quattro passi (Croce di Marone, Colmetta di Gasso, Sella di Spino e Forcella di Sale) sono scavate in rocce fortemente erodibili come pure la conca di Zone ed il fondovalle delle Valli di Gasso e dell’Opol. Al contrario le rocce calcareo-dolomitiche, stratificate in grossi banchi o addirittura non stratificate, presentano una notevole resistenza agli agenti atmosferici e determinano la formazione di versanti acclivi a morfologia accidentata, con pareti rocciose e dirupi. Rocce di questo tipo costituiscono una serie di cime allineate dalla morfologia aspra: monte Aguina, monte Blùzena e Corna del Bene. Affiorano inoltre lungo il versante occidentale (Costa del Guglielmo, la Testata)dove formano, insieme a rocce vulcaniche compatte, una imponente e caratteristica gradinata, in cui il colore chiaro dei calcari contrasta con il colore scuro delle rocce vulcaniche. Le stesse rocce calcareo-dolomitiche costituiscono la grandiosa scarpata rocciosa che delimita l’altopiano di Caregno. Anche le rocce dolomitiche che affiorano lungo la Valle di Inzino e che costituiscono i vicini gruppi montuosi di Punta Almana, Punta Tisdèl e corna Trentapassi danno origine ad un paesaggio aspro, con frequenti pareti rocciose, spesso arricchite da guglie e torrioni con vallecole profondamente incavate. Suggestiva è, ad esempio, la stretta gola scavata dal torrente Re di Inzino, in particolare nel tratto compreso tra la Valle delle Casere e Val Porchere.


I segni dell’antico ghiacciaio e del carsismo

Il ghiacciaio camuno che ha depositato la morena di Cislano aveva uno spessore davvero imponente, come dimostra il più elevato masso erratico rinvenuto nella zona, deposto al Passo dell’Aguina (1175 m). Un altro fenomeno, testimone di condizioni climatiche diverse dalle attuali, è dato dal circo glaciale di malga Guglielmo di Sopra. Ben evidente è la nicchia che si spinge fino al Rifugio Almici. Il fondo , che presenta una debole contropendenza, ospita una pozza. Data la presenza di rocce calcareo-dolomitiche, sono piuttosto sviluppati i fenomeni carsici. Particolarmente diffuse sono le cavità sotterranee, ma non mancano forme carsiche di superficie come le doline presenti sulla spianata della Testata e nei pressi di Malga Aguina, o come le microsculture in roccia diffuse un po’ dovunque sulle rocce calcaree. Sorgenti di tipo carsico emergono sia sul versante sebino (sorgente Séstola in Val Bagnadore), che su quello triumplino (sorgente Molinorso e Lôlem in Val Cavallina). A proposito ancora di sorgenti, lungo il versante nord-orientale, tra Pontogna e Mattoncino, ve ne è un buon numero in caratteristico allineamento (e non a caso la loro presenza coincide con quella di parecchie malghe): il fenomeno è determinato dal contatto tra le rocce carbonati che altamente permeabili che affiorano a monte e le rocce poco o nulla permeabili situate a valle.


Modellamento ancora in atto

Il rilievo del Guglielmo è tutt’ora sottoposto ad una lenta evoluzione morfologica per opera soprattutto dell’alternarsi del gelo e del disgelo che produce accumuli detritici ai piedi dei versanti, dell’azione delle valanghe, dei movimenti franosi e delle acque dilavanti e correnti che portano ad un progressivo modellamento del rilievo. Gli accumuli detritici sono diffusi soprattutto ai piedi delle pareti rocciose e dei pendii più acclivi. Costituiscono una situazione di duplice pericolo, in quanto presentano un equilibrio spesso precario e in occasione di piogge intense possono essere convogliati dalle acque i torrenti aumentando il danno e i l pericolo di eventuali piene. Le valanghe sono frequenti soprattutto lungo il versante nord-occidentale (Cascina Marsa, Mattone, Mattoncino), nell’alta Valle di Palotto, nell’alta Val Trobiolo e in Val di Colonno. I movimenti franosi attivi interessano soprattutto i terreni di copertura e sono presenti in corrispondenza a formazioni rocciose facilmente alterabili che producono notevoli quantità di materiale a ricca componente argillosa. Questi depositi di copertura presentano spesso una pendenza prossima all’angolo limite di stabilità e, in condizioni idrogeologiche particolari o in occasione di precipitazioni abbondanti, possono dare origine a movimenti franosi più o meno lenti. Sono pure piuttosto diffuse le frane di crollo lungo le pareti rocciose o i pendii erti e brulli. Sui versanti ad elevata pendenza, mal protetti dalla vegetazione, o in corrispondenza ad accumuli detritici si notano lacerazioni della copertura erbosa o fenomeno erosivi causati dal ruscellamento delle acque piovane. Processi erosivi legati ai corsi d’acqua sono diffusi su tutta la rete idrografica, ma sono particolarmente evidenti in Val Bagnadore dove,in occasione di forti acquazzoni all’intensa attività erosiva si accompagna un abbondante trasporto di massi, ghiaia e sabbia. L’evoluzione morfologica del rilievo del Guglielmo costituisce insomma un processo estremamente delicato, che è necessario studiare attentamente per capire la fragilità del territorio e la sua tendenza evolutiva, sia per prevenire possibili eventi pericolosi sia per inserire ogni attività in modo non dannoso.


Salite per tutte le stagioni

Era cent’anni fa, o giù di lì, e la schiera sparuta dei bresciani anelanti la “lotta con l’Alpe” non sapeva resistere al fascino incombente del Guglielmo, ne ambiva sommamente la salita e, per la bisogna, non esitava a ricorrere alle valenti guide del posto. Dopo un secolo è arduo, piuttosto, definire ancora “alpinistica” una simile salita, ma l’indice di gradimento del monte Guglielmo è rimasto intatto, e non c’è alcuno nel mondo bresciano degli appassionati di montagna che non l’abbia salito almeno una volta. Il suo segreto forse è tutto qui: alto sulla pianura ad ostentare il suo aspetto di montagna grande e severa (specialmente dopo una nevicata), ma nello stesso tempo familiare, si concede senza esigere eccessivi tributi di tempo e fatica; basta salirvi di domenica e anche d’inverno la cima è molto frequentata. Nella Guida alpina della Provincia di Brescia del 1889, l’unico monte ad avere intitolato un capitolo esclusivo è il Guglielmo “dalle verdi cime curve e spaziose infiorate dall’edelweiss alpino”. Il fiore oggi, simbolo di asprezza e inaccessibilità , lassù è quasi del tutto scomparso: quei pochi che si trovano sono stati miracolosamente risparmiati dalle legioni di salitori, eredi “plebei” dei pochi e distinti Alpinisti “fin de siècle” in doppiopetto e cravatta. Per tutti costoro il Guglielmo era meta iniziatica, ambita anche d’inverno, a piedi dapprima e poi con gli ski; il nuovo attrezzo, allora d’importazione, operò col tempo una svolta epocale, tanto da dividere in due filoni distinti la storia della pratica di montagna.


Una ragnatela di itinerari

Gli itinerari di salita verso la vetta del monte Guglielmo sono ampiamente descritti nelle guide specializzate, ma una breve presentazione di quelli principali non è eludibile. Innanzitutto, sull’asse nord-sud, corre e tocca la vetta l’itinerario di maggior prestigio delle Prealpi bresciane, quella dell’Alta via delle Tre valli realizzata nel 1981 dalle società escursionistiche bresciane e meglio conosciuta come sentiero 3V “Silvano Cinelli”, che nel suo percorso di circa 130 chilometri percorre l’intero “ferro di cavallo” delle creste spartiacque della Val Trompia con le limitrofe Valle Sabbia e Val Camonica. Lo scavalcamento del 3V sul Guglielmo avviene con partenza ideale dal Rifugio Piardi al colle di S. Zeno. Con poco più di 500 metri di dislivello da superare sul versante settentrionale, è questa la via di risalita più rapida (meno di due ore) al Guglielmo, anche se comporta il superamento, peraltro facile, di una piccola fascia di formazioni rocciose che la rende marginalmente più impegnativa. Il raggiungimento della cresta sommitale e del Redentore è di incredibile godimento dal punto di vista panoramico, grazie all’isolamento del Guglielmo nei confronti dell’ambiente circostante. Il 3V prosegue poi la sua corsa tortuosa passando dal Rifugio Almici, poco sotto la vetta, e poi per comodi sentieri e mulattiere dalle malghe Guglielmo di Sopra e di Sotto. Arriva infine alla Croce di Marone, punto strategico servito da un rifugio, ove convergono la strada da Cislano e il sentiero da Inzino. Dalla Val d’Inzino è la salita più lunga e faticosa, con i suoi 1600 metri di dislivello, ma gratificata dalla suggestione di questa valle lunga e selvaggia, stretta come una forra, da risalire fino alla sua testata, coincidente con la Croce di Marone, dove si incontra il 3V e quindi si rimonta verso la vetta. Una variante possibile, suggestiva e meno frequentata, è il dirottamento a metà Val d’Inzino per la Valle della Lana; poi si abbandona anche questa dalla cascina Lana e, per ripidi sentieri e pascoli, si arriva a risalire direttamente il versante sud del monte. Pure belle, e meno faticose, sono altre due classiche salite, da Caregno e da Pezzoro, entrambe sul migliaio di metri di dislivello. Da Caregno l’itinerario sale al Passo del Lividino in tre quarti d’ora e di qui, in due ore di salita graduale che tocca la malga Stalletti Bassi e sfiora la “Alti”, si arriva al Redentore seguendo le ondulazioni del crinale orientale. Da Pezzoro invece la salita, molto frequentata grazie alla presenza del Rifugio Val Trompia in località Pontogna, è un po’ più articolata e forse più faticosa, ma anche in questo caso tre ore sono sufficienti. Dapprima tre quarti d’ora di mulattiera fino alla Pontogna, poco dopo la quale si arriva ai piedi del ripido e cespuglioso ratù (il nome dice tutto) del versante nord del monte. Rimontandolo, si arriva agli Stalletti Alti e di qui si segue il crinale come nel percorso precedente. Sul versante camuno-sebino le salite classiche sono da Zone, oltre che dalla citata Croce di Marone. Da Zone il più coerente e diretto è quello dalla Valle Vandul, che, infilando una baita dopo l’altra, porta per mulattiera a passare dalla sperone del Giogo della Palla e dalla malga Guglielmo di Sopra; poco più su c’è il Rifugio Almici e da qui la vetta è a portata di mano e fa dimenticare le tre ore e mezza-quattro della salita per 1250 metri di dislivello. L’altro itinerario da Zone, di poco più lungo ma forse più panoramico, con un ampio giro porta al passo Croce di Zone e poi per malghe e roccoli, superate le caratteristiche “tredici piante”, percorre l’intero ampio crinale occidentale toccando, sulla strada del Redentore, Punta Caravina e Dosso Pedalta, la più alta elevazione del Guglielmo. Chiude la sintetica rassegna il sentiero che sale da Passabocche, località a 1300 metri sul versante camuno, collegata con Pisogne da una comoda strada. La salita è ripida e rapida, a cavallo del Dosso della Ruccola, fino alla Punta Caravina già incontrata nella descrizione precedente; da qui a Castel Bertino è uno scherzo. Due ore in tutto Inoltre sul vecchi Gölem, lassù a un passo dai duemila metri, la suggestiva saga dello sci continua da quasi un secolo a raccontarsi; ogni anno, neve permettendo, scatta e si rinnova la stagione dello sci-alpinismo, che coinvolge centinaia di appassionati di ogni età e bravura. Un condensato di fantasia, di suggestioni e, perché no, anche di enorme fatica per alcuni, un gioco appagante che non è ancora invecchiato. 


Il monumento al Redentore

Oltre al fascino e al richiamo paesaggistico-naturalistico che il Guglielmo infonde nell’immaginario collettivo bresciano, e non solo, un ruolo di fondamentale importanza viene ricoperto anche dal Monumento al Redentore, luogo di culto e preghiera che affonda le sue radici nella fede dei credenti che salgono fino a quota 1950 metri per rendere omaggio a questa imponente e aguzza struttura voluta con forza e tenacia, costruita come scrigno e baluardo della cristianità.

Nel 1899 a Roma si costituì un Comitato per “l’omaggio al Redentore”, ovvero la celebrazione del compimento del diciannovesimo secolo della Redenzione. Il programma prevedeva che, sulla sommità di una montagna in ciascuna delle 19 regioni d’Italia, venisse edificato un monumento; più tardi se ne aggiunse un ventesimo a consacrazione del secolo nascente. Per la Lombardia l’incarico di coordinare le operazioni fu affidato al bresciano Giorgio Montini e la montagna scelta perché rappresentasse degnamente tutta la regione e ospitasse l’opera fu il Guglielmo. Qui infatti, sulla elevazione detta Castel Bertino, tra il 1901 ed il 1902 fu eretto il grandioso “monumento d’omaggio a Gesù Cristo, consacrando a Lui il secolo che ora incomincia”. All’inizio si era pensato ad una grande croce, come era per lo più successo nelle altre regioni, ma poi il progetto, redatto da Carlo Melchiotti, prese la forma che conosciamo, a cappella piramidale dalla cuspide aguzza. Essendosi rivelata inadatta alla costruzione la pietra del luogo, all’ultimo momento si effettuò una radicale conversione alla tecnica allora nuovissima del calcestruzzo e, nonostante le difficoltà logistiche e ambientali, i lavori andarono felicemente a termine nell’estate del 1902. Il 24 agosto il vescovo di Brescia mons. Giacomo Corna Pellegrini inaugurò solennemente il monumento alla presenza di non meno di 10.000 persone salite da ogni dove. Il servizio all’altare fu prestato tra gli altri, da due figli del Montini: Lodovico e quel Giovanni Battista destinato a diventare papa col nome di Paolo VI. Fu proprio quest’ultimo che 61 anni dopo espresse il desiderio che il monumento fosse degnamente restaurato; infatti, complici le intemperie, il vandalismo e il sostanziale abbandono, il monumento era andato progressivamente in completa rovina e anche la cuspide era crollata verso il 1955. Accogliendo il desiderio (e il contributo) di Paolo VI, il monumento venne ricostruito nell’estate del ’66. Fondamentale, per la rapida ed economica riuscita dell’impresa, fu l’intervento degli elicotteri che il comando americano della SETAF di Vicenza aveva concesso. In 700 voli furono recapitate sul cantiere del Redentore 450 tonnellate di materiali di cui 70 erano cemento (per la cronaca il primo “Redentore” ne aveva richieste 45), e così fu che il 25 settembre 1966 si verificò la seconda solenne inaugurazione. Negli anni successivi, e cioè fino alla fine del diciannovesimo secolo, non si registrano interventi degni di nota, ma nei primi anni del ventesimo secolo, una nuova fase di manutenzione e arricchimento artistico hanno interessato il Redentore. Grazie alla tenacia e all’amore profusi dal signor Cesare Giovannelli, fondatore, nonché presidente dell’Associazione Redentore in collaborazione con l’amministrazione comunale di Zone e ad una cordata di generosi finanziatori, si è dato vita ad una serie di lavori di manutenzione (rifacimento della copertura della cuspide) e di notevoli abbellimenti artistici. Da citare tra questi, dapprima, il posizionamento di una statua di notevoli dimensioni raffigurante Papa Paolo VI (fautore della spinta alla “seconda ricostruzione”); in seconda battuta la realizzazione di un mosaico sulla parete del lato sud-ovest della costruzione e la sostituzione del vecchio portale di accesso alla chiesetta interna con uno nuovo, interamente in bronzo e dalla pregiata fattezza, raffigurante un bassorilievo del compianto papa Giovanni Paolo II. Ultimi per realizzazione, non certo per importanza, altri tre raffinati mosaici sulle restanti pareti della struttura a compimento di un notevole sforzo artistico ed economico.


Nei boschi del Golem

Il paesaggio montano è molto variabile. Pareti strapiombanti, dolci declivi, sole, tramonti, nuvole, neve, nebbie, tutto concorre a rendere sempre affascinante la mutevole bellezza della montagna ma, è la vegetazione che, con le sue associazioni, caratterizza spesso vistosamente l’aspetto degli ambienti. Tra queste, appariscenti, è la presenza dei boschi che con gli alberi, gli arbusti ed i cespugli attraggono l’attenzione di chi va per monti per le tonalità del verde, per le pennellate colorate di rosa, bianco e giallo delle fioriture primaverili e per le stupende tinte giallo-oro che le foglie assumono in autunno trasformando i pendii in stupefacenti tavolozze colorate. L’attuale vegetazione del Guglielmo è la sintesi di complesse vicende connesse al terreno, al clima ed alla presenza degli esseri viventi, tra i quali l’uomo, che spesso riveste un preminente ruolo nei cambiamenti. Un vistoso esempio è la totale distruzione dei boschi per utilizzarne il legname o per creare pascoli per l’allevamento del bestiame. Le azioni modificatrici geologiche, climatiche ed antropiche sono sempre in atto determinando continue evoluzioni. Anche una circoscritta analisi floristica presuppone una delimitazione della zona con riferimenti a intuitivi confini naturali. Sul Guglielmo è rinvenibile una notevole quantità di specie arboree e arbustive e ciò è in relazione alla posizione geografica, alla modesta altezza (circa 2000 metri) ed alla natura calcarea della montagna che favorisce, rispetto ai monti con rocce silicee, la presenza di un maggior numero di specie vegetali. Un albero molto diffuso è il Faggio (Fagus sylvatica), pianta meravigliosa, spesso imponente, con il tronco liscio e la chioma tondeggiante. Il fogliame è verde brillante e, in autunno, diventa giallo arancione. Lo si incontra un po’ dappertutto. Frammisto al faggio o raggruppato in boschi puri è frequente l’inconfondibile Abete Rosso (Picea excelsa) il noto albero di Natale dall’aspetto slanciato, conico, con pigne pendenti e fogliame formato da aghi sempreverdi. Un altro albero frequente è il Carpino nero (Ostrya carpinifolia) che può avere anche aspetto arbustivo, con foglie appuntite di circa 10 centimetri dal margine seghettato; le infruttescenze sono formate da brattee che ricordano quelle del Luppolo. Di facile riconoscimento è il Frassino (Fraxinus excelsior), pianta con portamento slanciato con foglie composte di 7-15 foglioline. Analogo ma con portamento anche arbustivo è l’Orniello (Fraxinus ornus) dalle vistose infiorescenze primaverili bianche e foglie composte mediamente da 5 foglioline. In prossimità degli abitati e dei cascinali vive il Castagno (Castanea sativa) l’albero che più di tutti gli altri è stato legato all’economia della montagna fornendo cibo e legname all’uomo. Nei prati vicino alle baite, comuni sono il Ciliegio (Prunus avium), il Noce (Juglans regia) ed il Sambuco (Sambucus Nigra). Non va dimenticata una bella conifera, il Larice (Larix decidua), dalla corteccia grossolana, con gli aghi riuniti in mazzetti di 30-40 che cadono in autunno dopo essersi colorati di giallo. Tende a vegetare nelle parti più sommitali del Guglielmo . In Valle d’Inzino si può incontrare anche il Tasso (Taxus baccata), pianta preistorica del Terziario, dal fogliame perenne, velenoso, verde scuro e dai “frutti” rossi e dolci. Nei fondovalle e nelle zone più umide crescono due alberi, l’Ontano bianco (Alnus incana), con foglie acuminate e col margine molto dentato e l’Ontano comune (Alnus glutinosa) con le foglie quasi tondeggianti, un po’ appiccicose. Sulle pendici solatie vegeta la Roverella (Quercus pubescens) dalle foglie pelose nella superficie inferiore. Si ricorda anche il Tiglio (Tilia cordata) con la chioma a cupola e le foglie cuoriformi. Nei pendii a nord del Guglielmo sono molto estesi gli arbusti che riconquistano i pascoli poco utilizzati. Abbondante è l’Ontano verde (Alnus viridis) dai fusti flessibili spesso incurvati a valle dal peso della neve, che conservano per molto tempo le infruttescenze composte da squamette lignificate. Su questi pendii è diffuso il velenoso Maggiociondolo (Laburnum alpinum) alberello o arbusto dalle foglie composte da tre foglioline, che in primavera si ricopre di grappoli pendenti di fiori gialli. A quote più basse si incontra invece il Laburnum Anagyroides, molto simile, ma dalle foglie trifogliate pelose nella parte inferiore. Tra gli arbusti va ricordato il Nocciolo (Corylus avellana) con le foglie tondeggianti e con i suoi ricercati e appetitosi frutti. Estesissima è la presenza di un piccolo cespuglio, l’Erica carnicina (Erica carnea), alta 15-30 centimetri, sempreverde, che ha rametti con piccole foglie aghiformi e fiori rossastri riuniti nella parte sommitale dei rami. Quasi simile è il Brugo (Calluna vulgaris), dalle foglie però aderenti ai rami come piccole squame e dai fiori rosati. Sulle rupi e sui pendii si può incontrare l’elegante Uva ursina (Arctostaphylos uva ursi), che ha lunghi rami spesso pendenti con piccole foglie verde brillanti di circa mezzo centimetro e frutti rossi. Sulle dorsali verso i 1800-1900 metri sono presenti alcuni tipici arbusti di bassa taglia come il Rododendro rappresentato da due specie, il Rhododendron ferrugineum, riconoscibile per le foglie rugginose nella parte inferiore e il Rhododendron hirsutum dalle foglie verdi con peli ai margini. Insieme convive il Ginepro nano (Juniperus nanus) in serrati e tondeggianti cespugli con foglie aghiformi e pungenti. A quote più basse tra i boschi di latifoglie si può riconoscere invece il Ginepro comune (Juniperus communis) che ha portamento ad alberello ed è caratterizzato da una singolare peculiarità, queste piante hanno fiori maschili e fiori femminili su piante separate. Al “solif”, termine che in bresciano indica le pendici più soleggiate , si incontra il Pero corvino (Amelanchier ovalis), arbusto con vistosi fiori bianchi e dolcissimi frutti neri. Un cenno anche ai salici arborei ed arbustivi rappresentati da più specie. Nei boschi di latifoglie spiccano gli Aceri, come l’Acero di monte (Acer pseudoplatanus), dalle grandi foglie lobate, e l’elenco può continuare con le Rose penduline dai vistosi colori purpurei, con gli spinosi Rovi, con le Lonicere, le Ginestre dai fiori gialli, i Citisi con rosse infiorescenze e le profumatissime Daphne.
Per soddisfare la curiosità di chi voglia saperne qualcosa di più ecco riportato un elenco di specie della poliedrica flora arborea e cespugliosa del Guglielmo, nel quale sono riportate anche specie non locali di impianto artificiale. Avvalendosi dell’aiuto di pubblicazioni specializzate sarà possibile riconoscere senza difficoltà le piante nominate aggiungendo così una tessera al mosaico delle conoscenze personali.


Un itinerario tra i fiori

Non v’è dubbio che a rendere tanto affascinante il Guglielmo concorra anche la varietà del suo paesaggio vegetale. Sia che si tratti del bosco particolarmente suggestivo negli addensamenti del faggio o nel cupo della pecceta, sia che riguardi l’arbusteto o la prateria delle più marcate elevazioni, esso esercita sull’escursionista una innegabile attrattiva, la quale si accresce in misura straordinaria se ad esclusive motivazioni estetiche si aggiungono interessi naturalistici. Da questo punto di vista pare sufficiente porre l’accento su come la diversa natura delle rocce giochi un ruolo determinante nel caratterizzare la flora. Certamente maggiore è la presenza delle rocce di origine sedimentaria, quali calcari e dolomie, e di conseguenza la corrispondente affermazione della smagliante flora che predilige tali tipi litografici; tuttavia notevoli sono gli affioramenti di rocce definite acide, quali le porfiriti ladiniche, carniche o di età imprecisata, che accolgono specie floreali di grande interesse. Senza alcuna ombra di dubbio la regina indiscussa nel vasto panorama floreale del Guglielmo è la Stella alpina (Leontopodium alpinum), pianta appartenente alla famiglia delle Asteraceae o Compositae che cresce spontaneamente. Di piccole dimensioni , la pianta raggiunge a malapena i 20 cm di altezza. Le foglie sono ricoperte da una peluria argentea e riunite alla base in modo da assumere la forma di una rosetta. I fiori hanno brattee carnose e vellutate di colore biancastro riunite tra di loro tanto da formare un fiore a stella. Dopo la prolungata fioritura, le brattèe appassiscono lasciando i capolini femminili fecondati pronti a far maturare i semi. Le porfiriti di Castel Bertino ospitano alcune felci assai caratteristiche, rendendo comuni le lineari fronde del circumboreale Asplenium Septentrionale , mentre ben più rare sono quelle della Woodsia alpina, anch’essa specie circumboreale di origine artico alpina. Si possono inoltre osservare le più meridionali stazioni di due alpestri pianticelle, la Draba Dubia, una Crucifera dalle piccolissime rosette di foglie cosparse di peli stellati così da apparire grigie e la Primula daonensis, un’endemica Primulacea dai fiori da rosei a violacei riuniti in ombrella e dalle foglie densamente rivestite da peli ghiandolosi. Si può dire che non esista rupe che non ospiti nelle sue fessure e nelle sue esili cornici la Telekia speciosissima, una magnifica pianticella endemica delle Prealpi lombarde, evolutasi e affermatasi in epoca antecedente le glaciazioni; una margheritona gialla che illumina con un caldo disco solare il grigio della roccia, dalle foglie coriacee che per la forma ricordano una larga punta di lancia la cui base allargata in orecchiette abbraccia il rigido caule. A queste quote, sulle dorsali, tra le costolature rupestri del versante volto a settentrione , quando la stagione estiva volge al termine, si può ancora apprezzare qualche notevole corolla. Soprattutto quella di un pallido azzurro della Campanula raineri, che sul Guglielmo tocca il suo limite meridionale, inconfondibile per la grande corolla aperta su un caule raccorciatissimo munito di foglie di un sobrio verde grigiastro. Il suo habitat peculiare è costituito dalle fessure nelle rupi, ma desta grande meraviglia nei rari casi in cui la si trova addensata in vivo tappeto sui lembi detritici scarsamente inerbiti che fasciano la verticalità dei dirupi. Nei prati adibiti a pascolo, tra la malga Guglielmo di Sotto e la vetta, dove tra l’erba affiorano grigiastre sezioni di calcare, è facilissimo scorgere la Primula longobarda che qui fa tappeto in zolle abbastanza ampie tempestate di fiori rossi. Scendendo a quote inferiori, dove però ancora il bosco non prende il sopravvento lasciando spazio ad ampi declivi erbosi, si possono incontrare i Bottoni d’oro (Trollius Europaeus) e gli Anemoni a fior di narciso (Anemone narcissiflora), oltre che ad esemplari di Meleagride, bulbosa gigliacea grandemente dotata di qualità estetiche. “Per la loro grande bellezza e rarità le Fritillaria (questo è il nome scientifico del genere botanico) sono specie in imminente pericolo d’estinzione, quindi si raccomanda di evitarne la raccolta e di contribuire alla loro conservazione”. La Fritillaria del Guglielmo , è il Meleagride alpino che nella disposizione della corolla ricorda un tulipano dal fiore reclinato, un bussolotto tendente ad un rosso violaceo vinoso, i cui petali presentano una variegatura che rammenta una scacchiera. Un altro bellissimo rappresentante delle medesime altitudini è Il Giglio rosso o giglio di san Giovanni (Lilium bulbiferum o Lilium croceum), una pianta della famiglia delle Liliacee. Cresce spontaneo con dense infiorescenze erette di colore giallo-arancio punteggiato di marrone, su steli di circa 1 metro di altezza. Si moltiplica facilmente con i bulbilli prodotti sullo stelo. Abbarbicata con le radici alle fessure di rupi incavate, pendula con le foglie spesso tanto grigiastre per la fitta peluria da rendersi pressoché mimetica con la roccia che le è madre, la Campanula elatinoides, già presente attorno ai quattrocento metri , risale fino a quando la dolomia, attorno agli ottocento metri, incontra gli strati indistinti dei calcari rappresenta uno degli endemismi insubrici che la rendono una “pianta bresciana” a pieno titolo. La singolarità dell’aspetto inconsueto di questa Campanula sorprende per l’elegantissima diversità morfologica a cui si è solitamente abituati con le più comuni specie rupicole; attrae con il portamento ricadente dei grappoli dei fiori cerulei che schiudono preferibilmente nella tarda estate. Dagli sporti delle affacciate pareti umide ricadono i cespi graminosi della Sesleria varia: un’erba che possiede spighette blu violacee con i riflessi metallici dell’acciaio brunito. Sono sempre i medesimi il luoghi che in modo particolare favoriscono l’affermazione di una minuscola Cariofillacea; si tratta di una Moehringia che col nome specifico muscosa bene definisce i suoi habitat preferenziali. Nell’aspetto essa non ha sicuramente nulla da spartire con i garofani alla cui famiglia appartiene; è tanto modesta che può passare inosservata a chi non riservi attenzione alle cose minute della natura.


Farfalle del Guglielmo
All’ombra dei boschi

La ricchezza dei boschi che fanno ovunque cintura attorno al gruppo del Guglielmo, ammantandone tutti i versanti, favorisce la presenza di numerose specie di farfalle nemorali e sub nemorali, cioè che vivono in ambiente boschivo o al limite di esso. Alcune di queste sono più o meno legate al Nocciolo, presente in gran copia nella Valle d’Inzino, in Croce di Marone e sulle pendici del monte Aguina, ai cui margini sarà facile imbattersi nella Callophrys rubi, facilmente riconoscibile per essere l’unico Licenide con la parte inferiore delle ali di un bel verde metallico; qui potremo trovare anche la Maniola jurtina, Satiride dalla livrea bruna, assieme alla Melanargia galathea, dall’inconfondibile maculazione bianca e bruna, che sono sicuramente tra le più comuni farfalle di questi ambienti. Nel bosco misto a latifoglie con carpino nero, frassino, acero, olmo e orniello, presente alle quote più basse un po’ in tutte le valli che salgono al Guglielmo, possiamo incontrare gran parte delle specie caratteristiche di queste associazioni vegetali. La monotona uniformità del fondo bruno delle ali è diversificata dalla distribuzione delle macchie aranciate della diversa disposizione degli “ocelli”: Dira megera, Dira maera e Hyponephele lycaon sono più frequenti nelle radure e ai margini del bosco, mentre più legate al fitto della vegetazione sono Aphantopus hyperantus e Lopinga achine. Più in alto dove le latifoglie miste cedono il passo al maestoso faggio, o dove questo si mescola al peccio, o ancora più in alto dove questo è puro, incontreremo più facilmente varie specie del genere Erebia (Erebia euryale, Erebia aethiops e Erebia medusa). L’Erebia cassioides, invece, è presente a quote ancora più elevate: la potremo incontrare oltre la vegetazione arborea, nell’ambiente di prateria. In questo habitat, pur non essendo esclusive, volano anche Pyrgus malvoides e Cyaniris semiargus.


Le specie boreo-alpine

È noto che uno dei principali fattori che originano la varietà e l’evoluzione delle specie è rappresentato dall’insorgere di nuove barriere geografiche che, isolando per lunghi periodi di tempo le popolazioni originarie, ne favoriscono la differenziazione. Questo evento, per verificarsi, richiede però tempi molto lunghi in rapporto al metro umano, cioè molte migliaia di anni. Prima delle glaciazioni del Quaternario, le popolazioni antenate indifferenziate di alcune specie del genere Euphydryas popolavano le valli alpine; il mutare delle condizioni climatiche pleistoceniche e le grandi espansioni glaciali che occuparono le vallate, dalle quali emergevano come in un arcipelago marino solo i maggiori rilievi, favorirono l’isolamento geografico delle popolazioni di farfalle, con la formazione di nuove specie all’interno del genere. Una forma si adattò a tali condizioni climatiche e vivendo in prossimità dei ghiacciai; attualmente è la Euphydryas debilis, con distribuzione boreo-alpina. Sparita nella media Europa, vive pertanto solo sulle Alpi oltre i 2000 metri, e con le medesime condizioni climatiche, nella tundra artica. Altre popolazioni, non riuscendo ad adattarsi, o si estinsero o migrarono in località più favorevoli. Queste differenziatesi, sono ora rappresentate dalla Euphydryas aurinia, distribuita in tutta la media Europa e, a quote più modeste rispetto alla congenere, negli ambienti più vari, come prati fioriti, argini erbosi , brughiere, ed è abbastanza frequente anche sul Guglielmo dove vola sui versanti a mezzogiorno durante i mesi di maggio, giugno e luglio.


Bruchi onnivori

Alla Forcella di Pezzoro, nei prati umidi sottostanti, esiste una buona popolazione dell’azzurro Licenide Maculinea alcon, che merita particolare attenzione per il ciclo biologico. In agosto dopo la schiusa dell’uovo, il bruco, che misura soltanto un millimetro, trascorre i primi stadi di sviluppo nella Gentiana cruciata, addentrandosi soprattutto nell’ovario e cibandosi delle sue parti interne, protetto durante le ore notturne dal chiudersi del fiore. Raggiunta la terza muta, al principio dell’autunno, il bruco abbandona il fiore cambiando le sue abitudini alimentari. Nel frattempo, le speciali ghiandole mellifere di cui è provvisto cominciano a secernere il liquido zuccherino tanto appetito ad alcune specie di formiche. In cambio di questo energetico nutrimento, viene ospitato nel formicaio, ove trascorrerà l’inverno, nutrendosi delle giovani larve. A maggio, completato lo sviluppo larvale, il bruco si incrisalida e, dopo la consueta metamorfosi, abbandona il formicaio trasformandosi nell’ insetto alato.


Fauna in libertà

I territori del Guglielmo, dalle pendici alla sua sommità, offrono abitazione e rifugio a numerose specie di fauna selvatica stanziale e migratrice. Si può affermare che non vi siano notevoli differenze, dal punto di vista faunistico, tra i due versanti, ma piuttosto una differenziazione per fasce vegetative e climatiche dovute alle diverse altitudini. Le specie migratrici che effettuano regolarmente il loro passo interessando il monte Guglielmo possono essere elencate partendo proprio dal loro periodo di transito: dalle balie nere ai pispoloni e ai crocieri in settembre; ai tordi bottacci, merli, fringuelli, pispole, pettirossi, frosoni, lucherini, cinciarelle e beccacce in ottobre; per finire con peppole, tordi sasselli e cesene da fine ottobre a tutto novembre ed anche ai primi giorni di dicembre a seconda dell’innevamento. Diverso è il discorso per la fauna stanziale selvatica che passa tutto il ciclo vitale in posti pressoché definiti. Data la notevole antropizzazione, che comporta un notevole reticolo di strade ad ogni quota e la presenza di attività umane quali l’escursionismo, la raccolta di funghi, l’esercizio della caccia ed altro, modesta è la fauna stanziale, la maggior parte dovuta ai massicci ripopolamenti a scopo venatorio. Per fasce altitudinali si va così dai fagiani, starne e lepri nelle quote più basse, seppure in quantità molto ridotte rispetto alle potenzialità territoriali e direttamente dipendenti dall’esito dei ripopolamenti; a lepri e caprioli nelle fasce medio alte, alle rare covate di galli forcelli nelle fasce vegetazionali dei larici e dei rododendri. Le rocce culminali sono invece ancora sufficientemente popolate dalla coturnice delle Alpi. Per la salvaguardia e la tutela specialmente della coturnice, fauna alpina autoctona tipica dei terreni aridi, dei ripidi pendii e delle rocce affioranti la cui nutrizione è abbastanza ampia e spazia da semi e bacche , a insetti e gemme, a teneri steli d’erba; già da una trentina d’anni è stata costituita una zona di rifugio denominata “Monte Guglielmo” con una estensione di circa 1218 ettari nei comuni di Zone, Marone, Pisogne, Gardone Val Trompia, Marcheno e Tavernole. La maggior parte di questa oasi di protezione è situata in tipica zona alpina con prevalenza di prati , pascoli e cespugli di rododendro e pino mugo. Necessaria ed indispensabile alla conservazione ed allo stato di salute di queste specie è la presenza delle mandrie negli alpeggi di montagna che consente il rinnovo del manto erboso. Riveste inoltre una certa importanza la presenza di piccole colonie di marmotte, insediatesi ormai stabilmente vicino alle malghe del Guglielmo Bassa e Alta, nel comune di Zone; numerosi sono anche i rapaci diurni in special modo nei pressi della Corna Trentapassi, nei comuni di Zone, Marone e Pisogne. Tutto sommato si tratta, sia per la fauna selvatica migratoria che stanziale, di una presenza di buon rispetto anche perché destinata nel tempo a mantenersi su livelli discreti proprio per l’accresciuta sensibilità ecologica.

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Monte Guglielmo